La liturgia come alibi?

27 Aprile 2020 By Promotori

di Riccardo Saccenti

Le settimane segnate dal deflagrare dell’epidemia di covid-19 hanno portato con sé una serrata discussione sul modo in cui la chiesa ha affrontato le misure di distanziamento sociale imposte dalle autorità pubbliche.

La scelta di sospendere le celebrazioni liturgiche, operata dai vescovi aderendo senza riserve alle diposizioni del governo, accanto ad alcune polemiche suscitate da chi ha visto nei provvedimenti dello Stato un indebito sconfinamento nella sfera di competenza della Chiesa, ha creato una condizione nella quale la vita delle comunità cristiane ha dovuto ripensarsi, tanto nella forma che nei contenuti

Fin dai primi giorni nei quali sono entrate in vigore le norme che vietavano ogni forma di “assembramento”, si è sviluppata una discussione riguardo alla sospensione della liturgia nelle chiese che ha visto intersecarsi piani diversi.

Da un lato, è emersa una preoccupazione per la centralità dell’eucaristia nella vita della comunità ecclesiale, che ha teso a rimarcare come quella liturgia sia espressione del Popolo di Dio nel suo essere Popolo sacerdotale e dunque vi sia un oggettivo errore nell’equiparare un’assemblea che celebra ad un assembramento. Dall’altro lato, si è voluto sottolineare l’indebita e inaccettabile ingerenza dello Stato nella vita della comunità religiosa, al limite, se non addirittura oltre il limite, del rispetto del diritto alla libertà di culto costituzionalmente garantito.

Fra questi due poli opposti vi è stata la reazione della chiesa ai limiti e alle esigenze imposti dall’emergenza sanitaria: una pluralità di iniziative, di utilizzo di mezzi di comunicazione non solo radiotelevisivi ma digitali, di progetti e opere sviluppati nelle diverse diocesi. 

La questione della liturgia, della sua celebrazione e della sua forma, diviene così il terreno su cui emergono alcuni nodi cruciali per la vita della chiesa in questo XXI secolo. Perché al di sotto dell’attuale confronto sulla possibilità o meno di continuare a dispensare i sacramenti vi sono questioni come:

  • l’autocoscienza tanto della comunità ecclesiale quanto del singolo credente,
  • il valore dei sacramenti per la vita della chiesa,
  • la visione dell’integralità della vita cristiana che supera la distinzione fra fede e opere,
  • la presenza o meno di un senso teologico della storia. 

Sotto la superficie della liturgia

Le diverse opzioni che sono emerse in queste settimane riguardo alla questione della celebrazione o meno dei riti, di che cosa sia una celebrazione liturgica e di quali diritti coinvolga, si sono mosse a partire da un duplice punto di vista.

La natura “sacerdotale” del Popolo di Dio, sancita dal Concilio Vaticano II, mette in questione una prospettiva, per così dire, legale, che è quella che equipara un’assemblea di fedeli che celebra ad un “assembramento”. Questo perché la natura stessa della chiesa non è quella della folla ma del popolo, ossia di una realtà relazionale le cui azioni, in questo caso quelle liturgiche, esprimono un’identità e al tempo stesso esprimono l’intimità di una natura. La rivendicazione del carattere comunitario della chiesa spinge a distinguere l’assemblea che celebra l’eucarestia da ogni altro genere di gruppo che viene a radunarsi e rappresenta una delle ragioni più efficaci di chi sostiene la necessità di una “eccezione” rispetto ai divieti imposti o di chi sottolinea l’urgenza di inserire le celebrazioni liturgiche fra le priorità della riapertura. 

Accanto a questa prospettiva vi è quella che invece fa leva sulla tutela del diritto costituzionale alla libertà religiosa e dunque alla celebrazione del culto, giudicandolo tanto importante, se non addirittura superiore, al diritto alla salute. Una posizione, questa, che ritiene illegittima ogni norma o decisione dell’autorità dello Stato che impedisca le celebrazioni liturgiche e che arriva a fare appello anche al principio di separazione fra Stato e chiesa sancito dall’articolo 7 della Costituzione per sostenere la totale incompetenza della Repubblica a determinare la liceità o meno delle celebrazioni liturgiche della chiesa.

In entrambi questi orientamenti appare secondaria la questione relativa al dato di fatto dell’epidemia, dei rischi sanitari che comporta e del modo con cui, in questa fase, sia possibile farvi fronte.

Pur di fronte al pericolo di una trasmissione dell’infezione l’attenzione sembra essere rivolta alla garanzia della celebrazione della liturgia eucaristica e più in generale alla dispensazione dei sacramenti, quasi che la sospensione di questi aspetti della prassi cristiana mettesse a rischio l’esistenza stessa della chiesa. Eppure, proprio questo tempo di forzato digiuno liturgico impone di chiedersi se davvero l’impossibilità di amministrare i sacramenti, celebrare comunitariamente l’eucaristia, o svolgere le attività delle comunità parrocchiali comporti un pericolo per l’esistenza stessa di un cristianesimo vivo, vissuto e capace di celebrare la fede.

Davvero l’essere cristiani si riduce alla celebrazione dell’eucaristia?

Sia che la si concepisca come l’atto del Popolo di Dio come soggetto sacerdotale, sia che la si intenda, in una logica “preconciliare”, come il rito che il presbitero celebra e a cui i fedeli assistono,

davvero questo esemplifica ed esaurisce l’esperienza cristiana e l’identità dei credenti, il loro essere portatori di fede?

Sono questioni alle quali dovrebbe essere accostata un’analisi che prenda in considerazione quello che è accaduto, de facto, negli ultimi due mesi all’interno del corpo ecclesiale.

Perché al di là delle discussioni di natura teologica, giuridica o storica, vi è nella realtà una reazione che si è dispiegata dentro le comunità cristiane e che spesso ha avuto quasi i tratti della “naturalità”.

La rapida diffusione delle celebrazioni sine populo, trasmesse non solo mediante la radio e la televisione ma facendo ricorso alla rete internet e alle sue potenzialità comunicative, ha rappresentato un fenomeno inedito e per molti aspetti “spontaneo” sul piano sociologico. E queste stesse potenzialità hanno fatto da ambiente al fiorire di una molteplicità di ulteriori iniziative di carattere religioso e liturgico: dalle preghiere alle meditazioni di sacerdoti e laici, dai sussidi liturgici per celebrazioni familiare o di comunità “distanziate” fino alla circolazione di idee e riflessioni all’interno della chiesa. 

Si tratta di una realtà magmatica, che si rivela segnata da forme e gradi diversi di consapevolezza teologica ed ecclesiale ma anche spinta da esigenze religiose molteplici a cui si cerca risposta dentro un orizzonte ambientale che di colpo, proprio grazie alla prospettiva digitale della rete, non ha più il perimetro ristretto della parrocchia, della diocesi, della realtà associativa o del gruppo.

La possibilità selettiva da un lato frammenta ulteriormente la realtà, perché rende meno vincolanti legami comunitaria sino ad ora giudicati imprescindibili e tuttavia affida alla scelta individuale la possibilità di selezionare rapporti, esperienze o anche solo “fruizioni” del religioso fino ad oggi inedite. 

Uno scenario del genere, sul quale la chiesa, in queste settimane, si è solo affacciata, rappresenta una opzione difficilmente eludibile per il futuro nella misura in cui la situazione che la crisi sanitaria ha determinato segna la chiara consapevolezza che il digitale e la rete non sono più solo uno strumento o un vettore di comunicazione: sono una parte integrante della realtà e dunque una dimensione di un ambiente che abbiamo scoperto plurale, complesso e interconnesso. 

Certamente, il primo impatto con tutto questo pone alla chiesa una serie di questioni, a cominciare da quello che sembra essere un ritorno di centralità della figura del presbitero. La pratica della celebrazione in assenza di popolo, motivata teologicamente dall’idea che la prassi liturgica officiata dal presbitero sia offerta che spiritualmente unisce tutto il popolo, sembra richiamare il paradigma tridentino della funzione mediatrice del clero rispetto ai laici. Un modello che a non pochi appare comprensibilmente problematico se posto di fronte all’ecclesiologia del “Popolo di Dio” del Vaticano II e al carattere sacerdotale proprio di ogni cristiano in ragione del proprio battesimo. 

E tuttavia, il rapido affermarsi di questa prassi, nella quale ad officiare la liturgia è, quando non un “mediatore” certamente un “rappresentante” della comunità e il fatto che quasi automaticamente si sia largamente accettato che a farsi carico di questa rappresentanza non possa che essere il presbitero in ragione del suo specifico ministero dice di come, pur di fronte alla elaborazione teologica conciliare, perduri nel fondo della coscienza dei cattolici il senso di una “diversità” del clero fondata sullo status giuridico riconosciuto all’interno della comunità. A distanza di secoli è come se questa pandemia sia capace di fare luce sul fondo della coscienza di sé che la comunità ecclesiale ha, mostrando la persistenza di strutture sociologiche che sono l’esito di almeno tre grandi riforme epocali nella storia della chiesa latina: quella carolingia, quella gregoriana e quella tridentina. 

Il tempo di nuovi ministeri

L’aspetto forse più interessante di questo stato di cose è che, la pur evidente discrasia fra il perdurare di queste forme e di queste strutture – con il loro sottofondo in termini di dottrina che rimanda a nozioni come societas christiana, alla distinzione del corpo ecclesiale in clerici e laici, alla organizzazione della sacramentaria secondo una clericalizzazione tesa a dire la diversità e specificità dell’essere cattolico – e della logica che invece si ritrova dentro il Vaticano II e in buona parte della attuale riflessione teologica, non sembra essere al centro delle preoccupazioni del Popolo di Dio. Il confronto fra le diverse posizioni che si sono via via delineate in queste settimane passa al di sopra di una quotidianità ecclesiale che continua attraverso questa molteplicità ed eterogeneità di forme e che lascia palesare potenzialità ancora da esprimere eppure non prive di criticità.

La possibilità di seguire, anche a grande distanza, la predicazione del Vangelo di un presbitero, scegliendo all’interno di quella che grazie alla rete potrebbe diventare una sorta di “offerta virtuale” di percorsi cristiani, spinge nella direzione di una valorizzazione del dato carismatico. È quest’ultimo, infatti, a giocare un ruolo essenziale nella capacità di raccogliere attenzione e ascolto da parte di un numero crescente di fedeli che vede nei mezzi digitali una possibilità con cui cercare un di più di risposte a interrogativi, esigenze spirituali, attese. 

Si tratta di un passaggio, questo che apre alla valorizzazione della dimensione carismatica, certo non privo di conseguenze anche sul terreno ecclesiologico.

  • Quale impatto può avere su una struttura che, non solo giuridicamente, continua a pensarsi a partire dall’unità territoriale della parrocchia?
  • Come impatterà sul ruolo, non solo dei presbiteri ma anche dei vescovi che dovranno misurarsi con questa dimensione così nuova e, per molti aspetti, costitutivamente “anarchica” che è la rete?

Certamente non vi verso una forma di sostituzione del virtuale al reale, ma piuttosto verso una convivenza di esperienze di partecipazione e di vissuto della fede che avranno linguaggi, logiche e caratteristiche molto diverse e che pure, in molti casi, vedranno coinvolte le stesse persone che magari offrono il loro servizio in parrocchia o a livello associativo, come presbiteri, come ministri, come catechisti, ma al tempo stesso vivono anche percorsi o impegni dentro quel pezzo di ambiente “virtuale” che è la rete. 

Occorre poi ricordare che tanto le discussioni dotte e articolate su liturgia e chiesa, quanto l’uso più o meno consapevole degli strumenti digitali stanno, per così dire, agli estremi di un terreno amplissimo abitato da cristiani che vivono la quotidianità della loro fede in modo essenziale, forse superficiale, certamente non alla luce di prese di posizioni nette e forti per una opzione o per l’altra. È questa enorme zona grigia, che rappresenta la larga maggioranza del Popolo di Dio, quella con cui occorrerebbe misurarsi per cogliere come e quanto il passaggio così tragico di questi mesi abbia modificato i tratti del loro essere, sentirsi e dirsi cristiani. 

Certamente, occorrerebbe un di più di riflessione che tuttavia non può avere i tratti del confronto accademico ma, utilizzando piuttosto gli strumenti della teologia, sappia farsi espressione di una sapienzialità che parla la lingua degli esseri umani e li rende capaci di dire la fede. Questo vale anche e soprattutto per quel legame fra chiesa e liturgia che sembra essere il grande nodo attorno a cui tanto si dibatte in questi giorni.

Andando al di là delle preoccupazioni per i rischi di una nuova clericalizzazione o dei timori per un’ingerenza dello Stato nella libera professione della propria fede, sarebbe interessante soffermarsi a riflettere su come questo stato di cose che sospende le strutture e le forme ordinarie della chiesa apra un tempo nel quale possono acquisire identità teologica forme di ministerialità che pure sono insite nel battesimo e negli stessi sacramenti.

La natura sacerdotale del cristiano, infatti, non rappresenta solo una qualificazione morale, ma assieme alle altre due funzioni che la completano – quella regale e quella profetica – dice di un compito a cui il battezzato è chiamato e dunque della sua capacità e titolarità ad assumersi l’onere di un ministero.

Non si tratta certo di disconoscere la specificità del presbiterato ma casomai di scoprire l’esistenza di una pluralità di forme con le quali la chiesa è capace di servire gli uomini e in questo elevare l’invocazione a Dio anche mediante una liturgia che non è mai stata ridotta, nella lunga storia del Popolo di Dio, alla pur centrale celebrazione eucaristica. 

Del resto, l’obbligo di restare a casa, che per molti cristiani significa l’obbligo di vivere nell’interezza della giornata la dimensione familiare, restituisce ad una dimensione che non può essere definita “piccola chiesa” solo in modo nominale, per distinguerla dal Popolo di Dio che celebra l’eucarestia.

Se la famiglia è chiesa, significa che è una dimensione della comunità cristiana dotata di una specificità ecclesiale ed è il luogo di esercizio di una ministerialità effettiva e piena che deriva agli sposi proprio dalla celebrazione del matrimonio.

Esiste allora lo spazio perché la sfera della famiglia riacquisti davvero una funzione che non è solo quella della educazione primaria alla fede cristiana, di una prima iniziazione dei figli che poi trova compimento nella catechesi offerta dalla comunità.

In ragione del matrimonio, che è celebrazione liturgica che gli sposi officiano a motivo di quello status battesimale che li rende sacerdoti, la famiglia assume dignità liturgica, diventa il luogo nel quale è possibile l’invocazione a Dio, l’affidamento a Dio e la preghiera come atto comunitario.

Sviluppare una riflessione a partire da questi dati, che si misurano con la carne viva del Popolo di Dio messa a nudo dalla crisi sanitaria apre allora delle possibilità.

Le apre soprattutto per una chiesa, quella italiana ed europea, che sembra vivere con fatica e disorientamento questo tempo.

L’attenzione alle strutture e alle forme che emerge dal dibattito interno alla comunità ecclesiale è infatti questione tutta occidentale, nella misura in cui in molte altre parti del mondo, un numero amplissimo di cristiani vive la propria vita di credenti in contesti nei quali la celebrazione liturgica dell’eucarestia è evento rarissimo. Basti qui richiamare quella chiesa che vive nelle terre dell’Amazonia e nella quale è emersa l’impossibilità di una liturgia ancora centrata sul solo ministero presbiterale. È quella una chiesa nella quale in molte circostanze l’assenza di eucarestia rappresenta l’ordinarietà e dove però questo non significa il venir meno né della fede né tanto meno della vita ecclesiale come vita del Popolo di Dio. 

Delle cose ultime

Vi è un aspetto dalla realtà di queste settimane che sembra essere uscito non solo dall’attenzione dell’opinione pubblica ma anche da quella ecclesiale. Pur di fronte all’importanza di questioni come quelle connesse al rapporto complesso fra liturgia, chiesa e spazio pubblico, sorprende che dentro la riflessione teologica o storica non abbia avuto alcun peso il confronto con il dolore e con la morte che pure sono i due tratti più laceranti della vita umana in queste settimane.

È come se anche dentro la chiesa si fosse introiettata quella tendenza, propria di una larga parte della cultura contemporanea e dei suoi modelli, che se non ignora il tema del soffrire e del morire certamente lo relega alla sfera privata, ad una dimensione di intimità psicologica che viene nettamente separata dalla dimensione pubblica e comunitaria. Delle pene dei malati non si parla, della morte non si parla, anche se il numero dei malati e il numero dei morti, proprio a causa della pandemia, assume proporzioni tali da mutare per sempre il volto e la natura di intere comunità.

Tutto questo sembra assente dal discorso teologico, sembra lontano da un confronto sulla necessità o meno di continuare a celebrare o sull’esigenza o meno di dare priorità alla riapertura delle chiese. E tuttavia proprio il dolore e la morte assumono il valore di un segno dei tempi, certo di questo tempo presente nel quale gli esseri umani, almeno in Italia e in Europa, riscoprono che la fragilità dell’esistenza è un tratto imprescindibile della nostra natura e che non solo le vite degli individui, ma anche i legami sociali, le strutture politiche ed economiche si rivelano edificate in una condizione di precarietà e segnate da limiti strutturali. 

È come se questa crisi sanitaria avesse mostrato una povertà della chiesa nelle terre dell’occidente: l’assenza di una piena capacità di misurare il presente, che pure è l’unica dimensione esperienziale possibile per l’essere umano, quella nella quale è in grado di acquisire una conoscenza diretta delle cose.

Interrogandosi sul perché di questo limite torna alla mente un’efficace distinzione bonhoefferiana, quella fra cose penultime e ultime che aiuta a riacquisire alla coscienza cristiana il senso di un’escatologia che tuttavia viene purificata da ogni tentazione millenarista. E questo perché la dimensione del presente nella quale viviamo – ossia quella delle cose penultime – non è in alternativa al termine ultimo, a quel Cristo in cui, come ricorda Paolo, ogni cosa verrà ricapitolata. Piuttosto la nostra dimensione, quella della nostra esperienza, è in relazione al tempo ultimo, ha un carattere relativo che non significa uno schiacciamento su un domani che diventa il termine inevitabile degli eventi e della storia. 

La sapienzialità cristiana vede in quel Cristo che è l’Alfa e l’Omega il punto in cui tutta la realtà, come dimensione plurale, viene accolta e appunto ricapitolata, ma mai omologata. E questo fa sì che ogni presente, con le sue forme e le sue strutture, le sue culture e i suoi linguaggi, le sue attese e le sue sofferenze, nella relazione con questa realtà ultima acquisti la propria specificità, la propria identità e dunque il proprio valore di tempo in cui misurarsi con l’esistente e con la vita, dunque anche con il soffrire e il morire. Perché questi ultimi non sono, soprattutto per la coscienza cristiana, eventi ed esperienze personali ed intime: o meglio, la dimensione dell’interiorità non le esaurisce perché incidendo su una persona che è parte di quella relazione che la affida ad un popolo diventano anche passaggi rilevanti per la comunità. E del resto, tanto il singolo cristiano quanto la comunità sono chiamati a leggerli in quella chiave escatologica che pone tutto in relazione al Cristo.

È allora forse da questo sforzo di sapienzialità sulla storia di ogni essere umano e di ogni comunità che si potrebbe partire per riformulare gli interrogativi che queste settimane di pandemia hanno suscitato nel Popolo di Dio.

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